In occasione dell’uscita di ‘1901: The First Mother‘, abbiamo avuto l’occasione di fare due chiacchiere con Giovanni Berselli, cantante della band. Una chiacchierata tra i temi dell’album, attualità… E qualche simpatica curiosità!
Ciao Giovanni, benvenuto su MetalShutter! Partiamo dall’ultimo evento Isola Rock, il vostro release party di 1901: The First Mother, dove avete tirato giù il Palariso.
Giovanni: Eri lì a vederci? Grazie mille, mi fa piacere.
Com’é andata, com’è stato il risvolto del pubblico? Come hanno reagito? Come è stato un po’ il backstage anche della giornata?
Giovanni: Mi sembra bene dai, noi eravamo tutti un po’ tesi perché era il primo show dal vivo con i pezzi del nuovo album. Anche perché ad un certo punto ho ringraziato qualche amico della Germania: Markus Wosgien di Fireflash Records era venuto giù apposta per vederci suonare dal vivo, ed è la prima volta che ci vedeva. Quindi avevamo anche un po’ quella tensione dovuta al fatto che tra il pubblico c’ era anche il nostro datore di lavoro. Però dai, mi sembra che sia andato bene. Dopo i primi trenta secondi il palco ormai lo conosciamo: ci siamo divertiti. Siamo andati anche a letto che era era l’alba!
Avete fatto anche voi bisboccia con Deathless Legacy?
Giovanni: Abbiamo fatto bisboccia, c’era anche il nostro amico che compiva gli anni. Eh sì, abbiamo fatto bisboccia fino che ci hanno chiuso fuori. Dopo ci siamo spostati in un pub che non ricordo neanche come si chiama anche
Come release party è andato alla grande.
Giovanni: Sicuramente il party c’è stato!
Questo è poco ma sicuro. L’album ormai è uscito da una decina di giorni. In generale, come vi sta sembrando la risposta, visto che comunque non è il primo album, e avete anche il vostro pubblico, i vostri fan? È il primo album che rilasciate sotto Fireflash Records.
Giovanni: Noi abbiamo fatto quattro album con quattro etichette, anche perché non siamo una band che produce tantissimo. In sedici anni di carriera quattro album non sono tantissimi, lo sappiamo, però, siamo fatti così e questo è il nostro modo di lavorare. Già il fatto che stiamo facendo mille interviste così vuol dire che va bene, c’è attenzione e hype. La cosa su cui ancora non possiamo dire nulla di ufficiale, ma che speriamo che venga confermata, è quella di riuscire a suonare come si deve quindi di andare in tour. Adesso non lo posso dare per certo o per scontato perché l’album è uscito in un periodo un po’ sfortunato, perché i festival estivi vengono programmati con moltissimo anticipo. Un album che esce a maggio, quando i festival estivi cominciano a giugno è un po’ sfigato. Ma se fosse uscito a febbraio o a dicembre era un’altra cosa. Ed era per quello che vogliamo fare noi, cioè suonare dal vivo. Se le cose andranno nel modo che speriamo, secondo me da settembre in poi sicuramente ci sarà qualcosa, quest’estate magari di minore entità, però certamente ci infiliamo. I festival un pochino più conosciuti erano già programmati da quel po’. Se conti che c’è stata la pandemia erano già forse programmati ancor prima delle band in in attesa. Quest’anno prima di uscire “1901” abbiamo suonato in Bulgaria in un festival grosso dove c’erano anche gli Slipknot e Sabaton, erano due anni che eravamo in attesa. Poi c’era stata la pandemia, quindi era stato spostato un anno dopo, ancora una volta c’era stato il covid, quindi eravamo lì in attesa di suonare, ma già dal 2021. Vedremo come va a settembre.
Bisogna dare ragione a chi nel 2020 aveva detto “Se volete suonare in qualche festival grosso, guardate adesso se ci sono slot, perché poi per i prossimi tre anni non non si libera assolutamente nulla.” Anche a livello discografico ha funzionato così? Avete avuto magari qualche ritardo per la release o vi è andato tutto liscio come l’album era pronto è uscito?
Giovanni: No, non era pronto. Abbiamo ri-registrato le batterie. Le pre-produzioni di voce sono andato a rifarle. Quando abbiamo firmato per Fireflash, che risale a un anno fa, avevamo molto pronto, ma poi le finiture finali abbiamo messe dopo. Dal momento in cui abbiamo firmato dopo è stato tutto fatto, ma avevamo l’uscita dei video stra programmata. Dei ritardi non ce ne sono stati. Dal momento in cui è stata confermata la firma, dopo è andato tutto liscio; prima della conferma della firma noi avevamo qualcosa di fatto. Però poi abbiamo registrato come si deve il risultato che senti.
La pandemia ha influenzato questa cosa o è stato tutto post 2020?
Giovanni: La pandemia ha influenzato eccome, nel senso che l’album è stato scritto via internet. Ci siamo visti poco; anche io le liriche, le metriche le ho scritte che molta parte della musica era già settata. Le batterie erano pre-prodotte midi e poi dopo sono state registrate dal vivo, però l’idea era già settata. La pandemia ha cambiato il fatto che molti pezzi sono nati alla maniera moderna. Invece che noi cinque in sala prove, sono stati cinque davanti al pc e la sala prove è arrivata dopo. Quindi sì, ha influenzato. Che sia in bene o male non lo so. Alcuni pezzi, sai, nascono bene così sull’onda de “c’è l’idea, vado, registro”. Altri nascono bene anche in questo modo. Perché così hai un po’ più di tempo per pensarci e ognuno ci mette il suo e ci vediamo solo quando siamo pronti. Una volta sarei stato molto critico di questo modo di comporre. Se l’avessi chiesto a me con gli altri cinque no, la musica si esprime in sala prove tutti assieme. Ed ero veramente convinto che fosse così. Poi dopo invece gli altri hanno insistito che si può fare anche diversamente e mi tocca dargli anche ragione.
Purtroppo hanno ragione, però trovarsi in sala prove è un’altra cosa, siamo onesti. Però vuol dire che avete dovuto fare dei progetti, avrete dovuto fare dei demo. Come nominate i progetti iniziali?
Giovanni: A volte li nominiamo sulla base di che cosa è successo al concerto. Magari abbiamo incontrato qualcuno e ci siamo fatti due giri di rum assieme. “Irradiate” all’inizio si chiamava “La rimastanza”. Nel mio paesello la rimastanza è quando uno è molto rincoglionito e non riesce a fare delle cose perché è pigro. Invece la parola “blaster” lo sai perfettamente cosa significa. Oppure “burger”. Io stesso ci metto ci metto un pochino a fargliela cambiare nella testa. Perché sono così abituato a chiamarla col nome stupido che dico “Da oggi in avanti la dobbiamo chiamare col suo titolo!”
Quando prepari le scalette per il live e non si riesce a mettere il nome giusto per fargli capire di cosa stai parlando. Mi è capitato di dover mettere il nome stupido perché il bassista non si ricordava qual’era il brano.
Giovanni: Allora facciamo così tutti!
Sì, ma infatti questa qui è la terza volta che faccio questa domanda e ricevo tutte risposte diverse. Ma la reazione primaria è quella di cinque minuti di risate che devo interrompere l’intervista e poi si riesce ad andare avanti. Perché poi vengono fuori tutti gli altarini, no? Quindi tutti i nomi utilizzati nel tempo e non se ne esce più.
Giovanni: E’ così anche per noi. Ci aggiungiamo alla lista di persone che lo fanno.
Voglio intervistare le band internazionali e farò la stessa domanda per vedere cosa salta fuori. Voi siete stati definiti “la band più sottovalutata d’Italia”. Adesso lasciamo un attimino da parte l’umiltà e tutto quello che si dice anche sui musicisti. Trovi che sia realistica questa affermazione o pensi che vista anche un po’ la situazione in Italia ce ne siano tante di band sottovalutate oltre a voi?
Giovanni: No, certo. Di band sottovalutate in Italia ce ne sono tante. Secondo me i Modern dopo il primo album sono esplosi, nel senso che erano in un periodo in cui avevamo vite diverse, eravamo tutti più giovani. Però sì, il primo album ci è arrivato addosso come una catenella, demo del mese, firma con la Napalm e dopo suonavamo ogni di weekend. Poi il primo tour e dopo le vite sono cambiate. Non è che abbiamo smesso, però, adesso anche all’interno della band Ludovico Soffi, il chitarrista fa il musicista. Questo è il primo anno che si può definire il musicista di professione, nel senso che ha aperto la partita iva da musicista e di musica vive. Però per farlo ha in programma di suonare ovunque. Mi ricordo un tipo della Metal Blade le definiva “hard touring people” nel senso gente che è sempre in giro per suonare. Ma se capitasse a qualcun altro di noi? Beh, se capitasse al bassista o anche a me o anche a Luca Cocconi (che adesso fa il produttore di mestiere) andare in tour 4-5 mesi all’anno comincerebbe a diventare complesso. Non ce la faremmo. C’è stato un momento in cui ci è capitato di sentirci molto presi e quindi di aver raccolto un pochino meno di quanto abbiamo seminato. Questa sensazione rimane, però la risposta in Italia è sempre calorosa. Ci divertiamo sempre. Fu una persona di MetalSucks che ci definì “the most underrated band in Italy” perché che gli piacevamo molto. Tutte volte che gli mandavamo un pezzo si gasava. Il secondo album ce lo mise addirittura tra le migliori uscite dell’anno. Di band che meritano in Italia ce ne sono un bel po’. I Modern sono longevi, nel senso che spesso quello che succede è che esce un nuovo trend. Quando abbiamo cominciato noi c’era il death core, poi dopo magari arriva una band nuova che esplode ma bisogna anche resistere alle intemperie. Quella è la cosa che forse fa la differenza. Ci sono anche band che arrivati a un certo punto per qualche motivo, a volte anche brutalmente per tirare l’acqua al proprio mulino, fanno dei cambi di genere non dico seduti a tavolino, ma quasi. Noi no. Chi se ne frega. Noi facciamo quello che ci piace. Io ho cominciato a mettere delle parti black, Ludo ci mette le orchestre e va bene così. Quando abbiamo mandato in giro il promo la nostra agenzia ha detto “Guardate che è una bella cosa”.
In generale siete sempre un po’ in sordina qui in Italia. All’estero, invece quando suonate com’è?
Giovanni: Dipende, credo che ogni band abbia il suo esempio. Secondo me, all’Alchemica sarebbe stato probabilmente la dimensione giusta per un release party dei Modern, perché anche a me piace suonare nei club dove allungo la mano e tocco chi ho davanti invece che avere le transenne. Mi piace molto di più. Bisogna essere realisti: intanto lo facciamo perché ci piace, non che ci campiamo o altro, quindi la dimensione giusta porta a far sì anche che il concerto venga vissuto in un modo o nell’altro. Quando il locale è pieno e si suda a me piace molto di più. All’estero dipende, quando giriamo come headliner e viene organizzato in modo tale che suoniamo nei locali a misura Modern va sempre benissimo. Viceversa, quando magari andiamo a supporto di una band che fa altri numeri, in quel caso siamo sempre una buona sorpresa per chi magari è venuto ad ascoltare qualcun altro e non noi. All’estero la gente è più curiosa. Mi ricordo una volta di domenica suonavamo alle quattro del pomeriggio, chi vuoi che ci sia in Germania? Invece non è vero, alle 15:58 venne tutto il pub che era sopra. Suonavamo coi Gorgoroth. E sono scesi tutti. In Germania la gente va a teatro, nei teatri piccoli, riempie anche al balletto. La gente invece in Italia… io vado al cinema a vedere i film della Marvel che mi piacciono. A teatro ci vado un pochino più di rado, qua a Genova c’è un teatro meraviglioso e ci vado poco. Speriamo di portarlo di portarlo in giro sto disco oltre anche i confini italiani!
Se pensi alle date da headliner e alle date in apertura, ci sono due date in particolare che ti vengono in mente che ti sono rimaste impresse?
Giovanni: Beh, un’apertura che più che un’apertura è stata una chiusura, nel senso che in quel caso abbiamo chiuso il festival “Hills Of Rock” dove c’erano Sabaton, Slipknot e Behemoth… Conoscere Nergal è stato fico e quindi quella la metto come data che ricordo da band non headliner. Anche quando abbiamo suonato con i Jinjer ci siamo divertiti. Da headliner invece la data al The Factory; è un locale in cui mi diverto sempre molto, perché mi sento bene sullo stage e poi c’è anche un backstage dove ci riempiono sempre di birre.
Parliamo un attimo dell’artwork. Anche quello è stato fatto da Ludovico. Ci avete lavorato tutti insieme, ci ha lavorato solo lui? Avete lavorato al concept, poi lui si é arrangiato a fare tutto? Come l’avete gestita?
Giovanni: I testi li faccio quasi totalmente io, anche se qualcuno lo abbiamo fatto appunto con con Ludovico tipo “A Stygian Tide” dell’altro album prima l’abbiamo fatto insieme a quattro mani. Il concept è dovuto al fatto che l’album si chiama 1901 che è l’anno in cui è morta la regina Vittoria, quindi l’inizio dell’età moderna nella letteratura inglese. Fondamentalmente gli ho passato io il concetto e lui l’ha tradotta in immagine. L’unica cosa su cui abbiamo un pochino influito era che non volevamo che fosse il solito bagno di sangue standard. Quindi anche il background bianco (che è una cosa già vista non dico che sia nuova) però almeno nei Modern no. L’abbiamo consigliato noi da quel punto di vista, poi tutto il resto l’ha fatto lui anche perché ha fatto anche la copertina di Stygian. Spesso ci scorniamo anche tra di noi perché ognuno la pensa a suo modo, ma poi si va sempre perfetti quando ce l’ha fatto vedere che non c’era niente da fare. E’ perfetto così. Quando le cose arrivano e ti colpiscono siamo tutti d’accordo.
È vero che non c’è un vero e proprio concept, però c’è un filone all’interno dell’album. Quali sono le tue ispirazioni principali quando si tratta di testi?
Giovanni: Wilfred Owen, che praticamente abbiamo preso una fase in latino “Dulce et decorum est pro patria mori” quindi “è bello e dignitoso morire per la propria patria” l’abbiamo praticamente ribaltata utilizzandola in maniera in maniera ironica. Poi “KLLD” presa da “J’ai tué” di Blaise Cendrars, un poeta francese che diventa soldato e quindi per la prima volta uccide. Quella sera ero a cena con con degli amici che fanno musicisti, però classici (sono due pianisti). Parlando così gli ho detto che stavo cercando delle nuove ispirazioni, e Cendrars me l’ha consigliato lei, poi me lo sono andato a cercare. In certi altri casi non c’è poi un poeta o altro… In passato, per esempio il primo album “Damned To Blindness”, anche se pochi lo sanno, è molto ispirato a Pier Paolo Pasolini. “Vile Mother Earth” che facciamo da sedici anni ormai è ispirata da una poesia “La ballata delle madri”. Per “Requiem for us all” anche in quel caso ho avuto un’ispirazione da un libro che si chiama “If you meet Buddha on the road, kill him”. Non l’ho mai detto a nessuno, ma a volte mi prendo i pezzi di De Andrè, di Fabrizio De Andrè ad esempio l’antologia di Spoon River e li rivedo in chiave in chiave metallaro, quindi questo è un pochino come nascono i miei testi. A volte invece no, sono cose mie. Lilibeth è un pezzo dell’album nato una sera che ero a cena con con una ragazza che stava malissimo perché si era appena lasciata. Abbiamo parlato un po’, io l’ho registrata ed è nato il brano.
Domandina che non so se magari ti è già stata fatta da tante persone, ma adesso lo faccio anch’io e… “The Modern Age Slavery”. Qual è la tua schiavitù moderna? Magari senza andare su social e tecnologia perché ormai sono un po’ inflazionati… Però c’è una cosa moderna di cui sei schiavo, di cui non ti liberi minimamente?
Giovanni: No, io personalmente onestamente credo di essere abbastanza rompi maroni in tutto, nel senso che vada avanti con la mia testa. Lo so che non voglio sempre andare sulla tecnologia, però io nella mia vita faccio quello di mestiere, faccio i robot. Quindi di tecnologia ci campo. Ad esempio, magari il prossimo album, la copertina invece che farla fare dalle sapienti mani di Ludovico ci sarà un’intelligenza artificiale che ce la fa? Lo so che è una stronzata, però questa cosa mi spaventa tantissimo. Che ci siano addirittura delle band che per scrivere i testi vadano a farselo fare da qualcun altro, questa cosa mi spaventa. Poi giustamente alla fine chi ha un pochino di sale in zucca mischia le due cose. Sarebbe come dire che hai qualcuno che aiuta e non lo usi per partito preso, ci vuole una via di mezzo. Come dire adesso in questo momento, ma nomi, navi, iter rosso. Ma si può registrare la musica in maniera anche un pochino più facile rispetto al passato, chi lo usa furbamente non diventa schiavo. Se invece invece proprio si lascia andare a quello che si può fare secondo me un pochino succede, perché già adesso cominciamo a tirar fuori a musica a ritmi assurdi. Questo spero di non diventarne schiavo, perché bisogna produrre, produrre, produrre a volte alla cazzo di cane, tutte le volte mi vengono a dire “I Modern fanno degli album una volta ogni morte di Papa”. È vero, perché sei anni tra un album e l’altro noi potremmo trovare una via di mezzo, però neanche neanche buttar fuori cose già sentite a ritmi assurdi; di quello sono un po’ spaventato.
A questo punto ti chiedo di lasciare un saluto ai ai lettori o qualsiasi messaggio tu voglia lasciare!
Giovanni: Venite a vederci dal vivo. Questa sì, è una domanda che mi fanno spesso durante le interviste. I Modern vivono per i concerti quindi venite a vederci che ci divertiamo!